EUTANASIA, OVVERO, IL PARADOSSO TRA RAGIONE E COSCIENZA

di Maria Antonietta Del Boccio1



La definizione più esauriente si trova nella Dichiarazione della S. Congregazione per la Dottrina della Fede: "un’azione o una omissione che di natura sua, o almeno nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore."

Recenti fatti di cronaca hanno dato alcune vite straziate in pasto a giornalisti e politici che hanno ferocemente strappato brandelli di cuori per esporli ai riflettori del cinismo. Ne abbiamo sentito parlare con terminologia approssimativa, con il pressappochismo che confonde le situazioni, con la menzione impropria di parole sacre come libertà, diritto, civiltà, con il calore e la rabbia delle viscere: ne abbiamo sentito parlare con la stessa facilità con cui si discute di calcio. Invece è un tema difficile ed antico, per affrontare il quale occorrerebbe tutta la saggezza del mondo.

Ma una cosa è certa: bisogna parlarne, non per depotenziarne l’impatto sulle emozioni e sulla regione – impatto che in un tema etico così forte deve restare forte – ma per delinearne i contorni in tutte le sue involuzioni ed evitare l’approccio semplicistico.

Ciò che distingue l’eutanasia – in tutte le sue forme – dall’omicidio è solo l’intento, quel “togliere il dolore”, quell’”” posto davanti alla parola “” che indica l’intento positivo, lo scopo buono. Ma basta questa “paroletta” così difficile da definire, da circoscrivere e da dimostrare affinchè il giudizio umano possa passare dalla prima fattispecie – inequivocabilmente illecita – all’altra per la quale si vorrebbe l’assoluzione?





Lo stato della legislazione

Che questo tema sia sul piano legale un ginepraio è evidente dalle modalità e principi differenziati con cui la normativa lo ha affrontato.

In Australia, una legge del 1996 considerava l’eutanasia alla stregua di un qualsiasi trattamento medico da applicarsi – sotto determinate condizioni di sofferenza ed inguaribilità – a richiesta dell’interessato e nel diritto di questi a gestire la propria morte. Ma la legge è stata abrogata nel 1998.

Negli Stati Uniti, la Corte Suprema con sentenza del 26 giugno 1997 dichiara: “Ciascuno, a prescindere dalla condizione fisica, è autorizzato, se capace, a rifiutare un trattamento indesiderato per il mantenimento in vita, mentre a nessuno è permesso di prestare assistenza al suicidio: il diritto di rifiutare trattamenti sanitari si fonda sulla premessa dell’esistenza non di un diritto generale ed astratto ad accelerare la morte ma del diritto all’integrità del corpo e a non subire interventi invasivi indesiderati” (Citato nella Sentenza della Cassazione n. 21748/2007)

La Francia nel 2005 si è premurata di regolamentare solo la forma passiva dell’eutanasia e l’accanimento terapeutico fornendo casistica, definizioni e procedure tecnicamente circostanziate.

In Germania, il lasciar morire ricade nella fattispecie dell’”omissione di soccorso” e di “maltrattamento di persona tutelata”, una fattispecie per così dire “declassata” dall’uccidere così che l’attore deve dimostrare le ragioni dell’omissione. Quanto al suicidio assistito, questo non è reato, purché il malato sia cosciente delle proprie azioni e compia da sè l’atto finale che produce la morte. Si nota qui tutta l’acrobatico tentativo di delimitare la tematica delle ragioni dell’atto eutanasico e della sua libertà.

L’accettazione dell’eutanasia attiva viene delineata solo nelle legislazioni della Svizzera, del Belgio e dell’Olanda, laddove negli altri paesi del mondo è sostanzialmente vietata.

Anche la Svizzera ricorre a fattispecie collaterali della legislazione corrente adottando il concetto di istigazione al suicidio: questa azione è punibile solo se compiuta con moventi egoistici. Dunque i medici – in quanto estranei all’interessato e dunque non spinti all’azione da interesse personale o egoistico – possono praticare l’eutanasia sul paziente incurabile che lo richieda ripetutamente, restando solo strumenti della volontà del suicida.

Il Belgio ha dal 2003 la legislazione più audace: i medici – quali meri esecutori della volontà del paziente – sono autorizzati a praticare l’eutanasia sul malato in stato “grave ed incurabile” che lo richieda ripetutamente e che patisca sofferenze fisiche o psichiche. Le direttive anticipate hanno valore legale in caso di incoscienza. Tutte le fasi decisionali sono procedurizzate, rintracciabili ed esaminate nella loro correttezza formale. Dal 2005 è in vendita in farmacia - dietro presentazione di ricetta medica il prodotto barbiturico letale, utile ad un uso in famiglia.

La legislazione dell’Olanda sembra comunque quella che in modo più significativo ha registrato l’evoluzione del ragionamento sulla questione, riuscendo a sottolinearne meglio le contraddizioni intrinseche: in applicazione al Regolamento mortuario, dal 1994 la richiesta del malato, l’applicazione rigorosa di una procedura di certificazione dello stato di inguaribilità e sofferenza e la rintracciabilità delle decisioni rendono il medico incolpevole del delitto di omicidio di fronte alla magistratura. La ratio della legge è l’applicazione del concetto di “forza maggiore” (la “necessità” dunque, di cui si diceva più sopra) derivato dall’esistenza di una richiesta esplicita dell’interessato. Ratio applicabile solo ai malati, dato che la stessa legge considera delitti penalmente perseguibili sia l’omicidio di consenziente che l’istigazione al suicidio. Dal 2002 l’operato dell’equipe medica non deve più passare attraverso l’esame della magistratura. E’ stata inoltre accolta come ratio nel superamento dell’omicidio anche il concetto di “caso estremo”. In questa casistica vengono fatte rientrare non solo le sofferenze attuali stimate intollerabili ed incurabili, ma anche le previsioni di esse su neonati.




La domanda di eutanasia

Quello della “buona morte” è un tema antico che tuttavia solo in tempi recenti si pone con drammatica evidenza perché coinvolge numeri sempre maggiori: la domanda di eutanasia è crescente per ragioni storiche, pratiche e culturali.

La dolcezza di vivere, frutto prezioso dei progressi dello spirito umano, ha abbassato enormemente la nostra capacità di soffrire e la nostra tolleranza al dolore.

Le indicibili sofferenze che sopportavano gli uomini antichi, l’abitudine alle torture inflitte dalla natura e dalle malattie, la convivenza con le punizioni corporali normalmente praticate dalla giustizia corrente o dagli esiti delle azioni di guerra rendevano la sofferenza in qualche modo familiare ed allenavano il corpo e la mente alla sopportazione. La stessa cultura trovava modo di rafforzare e sublimare quella realtà inevitabile, inventando l’eroismo e trasformando la resistenza al dolore in una caratteristica sociale di leadership. La frequenza delle malattie e la gravità di tutti i rischi che quotidianamente attentavano alla vita rendevano più forte l’imperativo biologico della sopravvivenza contribuendo ad accrescere resistenza e sopportazione. Queste motivazioni sono oggi del tutto scomparse almeno nel nostro mondo: il corpo è debilitato in sé e la sensibilità alla sofferenza è accresciuta.


I progressi della medicina hanno prolungato la vita umana, consentendo di rubare lunghe durate alla morte grazie a tecnologie e farmaci sofisticati: tutto ciò ha reso tecnicamente possibile la dilatazione della vita mediante l’instaurarsi di un interminabile stato di cura altalenante tra convalescenza e malattia, che lascia spazio alla Morte di agire solo su ciò che è ineluttabile come l’invecchiamento. Questo progresso ha creato una situazione inconcepibile fino a pochi anni fa che è lo stato di vita artificiale o di vita che non riesce a morire. E questa situazione appare sempre più frequente e più concreta: la domanda di eutanasia cresce proporzionalmente ai progressi della medicina ed alla permeazione di tali progressi nel quotidiano delle grandi masse di umani.


A lato del percorso scientifico, si svolge quello culturale: oggi riconduciamo i parametri misuratori delle nostre esigenze non più alla vita in sé, ma alla qualità della vita, alla sua dignità. E questi due ultimi riferimenti sono tanto più determinanti nel nostro giudizio quanto più siamo acculturati, quanto maggiore è il benessere che abbiamo raggiunto come società, quanto più possiamo permetterci il “superfluo” rispetto all’essenziale, trasformandolo da ciò che era (una fortuna, un decoro di più della vita) in una necessità. Incide sul fenomeno anche il crescente materialismo e relativismo delle civiltà avanzate, alimentato dalla diffusione del dialogo tra culture e religioni differenti. Il confronto e la convivenza fanno impallidire le regole, interrogare sulle ragioni, sfumare le differenze ed avvicinano ciò che – in quanto dogma di ambiti religiosi e culturali diversi – sarebbe lontanissimo.


Infine, incide anche un revitalizzato spirito critico universalistico verso i divieti etici, una domanda di libertà nell’autodeterminazione talvolta caotica, spontanea e sostanzialmente “ignorante”, talvolta invece accreditata da teorie radicate nella nostra cultura fin dal secolo dei lumi. La felicità è un diritto, come ci ricorda la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 “tutti gli uomini sono creati uguali tra loro, essi sono dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità", cui fa entusiastica eco la Rivoluzione Francese: “La felicità è un’idea nuova in Europa” (Saint Just); la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata dall’ONU nel 1948 va oltre: “ognuno ha diritto al riposo e allo svago..” (art. 24).


Le forme tecniche della questione

Ma torniamo alla sostanza: direttamente dalla definizione discendono le parole chiave del problema:


Traduco le fredde definizioni che precedono in una lingua più tangibile e tento anche alcune drastiche schematizzazioni per limitare la questione, la cui enormità può essere solo ulteriormente accresciuta dalle sfumature che si pongono sotto il profilo propriamente medico.


Le forme dell’eutanasia sopra enunciate si possono esprimere così:

  1. la persona su cui si esercita l’eutanasia è cosciente ed esplicitamente desiderosa della morte

  2. la persona è incosciente

I due casi elencati si declinano nelle opzioni:

Ciascuna combinazione pone questioni profondamente diverse.



La prima categoria di forme associata alla prima opzione

Il caso di un soggetto che chiede la morte, che è cosciente e mantenuto artificialmente (supponendo per un momento che questo concetto possa configurarsi in modo esatto) ad una vita di sofferenza si presta all’inquadramento più semplice.

L’autosufficienza della vita nella sua piena naturalezza è – a mio avviso – un presupposto perché il dare la morte con tutte le implicazioni etiche, legali ed umane che comporta, possa configurarsi correttamente.

L’applicazione continuativa e permanente di tecnologie (di respirazione, di alimentazione, di disintossicazione, etc.) quale condizione necessaria al mantenimento in vita comporta in sé una tale invasione della persona umana nel suo corpo, nella sua intimità e nel suo stato di natura da richiedere il consenso formale ed esplicito dell’applicazione stessa, piuttosto che il permesso della disapplicazione.

Non diversamente – mi viene da pensare – da un qualsiasi atto d’amore che se non richiesto o autorizzato diventa immediatamente violenza, la cura di un malato richiede il suo consenso.

In questo senso, la concessione esplicita del permesso da parte del soggetto cosciente equivale all’espressione della volontà di vivere. E tale espressione obbliga la società civile all’applicazione di tutte le possibili azioni che la scienza e la conoscenza le mettono a disposizione per rispondere all’imperativo del diritto alla vita. Ivi compresa l’applicazione di palliativi o di cure prolungate ed invasive che non diano speranza di esito positivo, cioè del così detto “accanimento terapeutico”.

Per contro, appare evidente che se l’interessato, coscientemente consapevole delle conseguenze, respinge l’applicazione di tecnologie e rifiuta la manipolazione di terzi – che si esercitino in azioni o con strumenti – sul proprio corpo ne ha a ciò legittimo potere ed insindacabile giudizio. La non applicazione di tecnologie per semplice rifiuto dell’interessato, ovvero la disattivazione di tecnologie attive su semplice richiesta dell’interessato, è solo il ripristino della condizione originaria dell’umanità in cui solo la natura ha il controllo della macchina umana. L’accettazione di un tale rifiuto o di una tale richiesta da parte di coloro che possono tecnicamente porre in essere sul malato le azioni inerenti le tecnologie, è doveroso rispetto della persona e riconoscimento della sua potestà, del suo diritto di rinunciare a tutte le sovrastrutture appellandosi alla sorgente del diritto.

La “condizione originaria” è la fonte immodificabile ed incontestabile del diritto fondamentale della vita, quello che rappresenta la legge di natura e, in quanto tale, gerarchicamente sovraordinata a tutte le successive sovrastrutture costruite dalla scienza e dalla cultura umana: è il limite al di sotto del quale non si può andare.

In questo quadro il dovere legale di intervento da parte del medico, il dovere di assistenza dei congiunti, i doveri dello Stato nella protezione dell’individuo hanno tutti carattere subalterno rispetto al diritto della persona di scegliere il ripristino della condizione di natura. Tale diritto è talmente forte che prescinde dal fatto che la cura sia efficace o no, che si tratti di accanimento terapeutico o no, che vi sia sofferenza o no.

In questo ambito di considerazioni sia laici che non, dovrebbero poter aderire senza necessità di ulteriori regolamentazioni di legge ordinaria che addirittura “declassificherebbero” il concetto elementare di partenza. Vale la pena ricordare che la Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea che nell’articolo 2 “Diritto all’integrità della persona” afferma: “Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati il consenso libero e informato della persona interessata…”, laddove il consenso informato è “legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento medico è sicuramente illecito anche quando è nell’interesse del paziente…..esso ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale…..ma c’è prima ancora il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. ” (parere della Cassazione n. 21748/2007 che fa riferimento, tra l’altro, alla Costituzione Italiana – artt. 2, 13 e 32 – ed alla Convenzione del Consiglio d’Europa: “Un intervento nel campo della salute può essere effettuato solo dopo che la persona interessata abbia rilasciato il suo consenso libero ed espresso”).


La prima categoria di situazioni, declinata nella seconda opzione

Il caso di un soggetto desideroso di morire, cosciente e dotato di vita di sofferenza ma autosufficiente apre questioni ben più complesse.

La linea di demarcazione che, in questa seconda categoria di situazioni, viene sorpassata è rappresentata dell’azione positiva esercitata contro lo stato di natura e, togliere la vita a chi ne è dotato, si chiama “uccidere”.


Davanti a questo concetto elementare si spalanca un baratro.

La difficoltà del processo giudicante razionale è palese dal momento che esso affonda nella paludosa questione della natura della proprietà che l’uomo acquista sulla propria vita e sul proprio corpo con la nascita, cioè della libertà effettiva con cui l’uomo può quantitativamente e qualitativamente disporre legittimamente della propria vita.

Non si può dare maggiore potere di quello che si possiede, e chi non può sopprimere la propria vita non può dare ad altri il potere su di essa”: così Locke argomenta il diritto naturale dell’uomo alla libertà dalla schiavitù, diritto che è anche un obbligo ad onorare tale primigenia libertà a tutti costi. Argomentazione laica che è tuttavia perfettamente riscontrata anche dal ragionamento cristiano: la vita non ci appartiene, è una dotazione temporanea della nostra anima, provvisorio mezzo del suo eterno essere ed agire, strumento di cui Altri è proprietario, dante causa e destinatario finale. E per un cristiano questo principio diventa una regola perentoria che obbliga sia chi si apprestasse a darsi morte o a chiedere la morte, sia chi si predisponesse a darla acconsentendo ad una esplicita richiesta.


Ma anche se supponessimo per un momento che ognuno di noi fosse proprietario della propria vita così come lo è di un vestito che ha acquistato e che fosse libero di farne l’uso che preferisce senza riguardi o limitazioni, ecco che allora resterebbero comunque domande impegnative da porci quali: “questa volontà cioè quella che esprime il desiderio di morire è veramente libera?”, “si può delegare l’azione del suicidio senza che chi agisce abbia responsabilità?”

E se alla questione sulla proprietà della vita, qualcuno potrebbe irridere in nome di un laicismo semplicistico, sulle altre domande anche il ragionamento più totalmente laico deve soffermarsi.

In fin dei conti, è per lo stesso motivo e nella stessa logica che si afferma che l’accettazione di un minore ad un atto sessuale con un adulto non può essere considerato un consenso perché privo del requisito della piena consapevolezza da parte di colui cui solamente spetta la decisione. Per lo stesso motivo un omicida pazzo non è colpevole davanti alla legge; per lo stesso motivo, le procedure legali prevedono che ad un suicida si tenti sempre e comunque di salvare la vita (e questa logica si rivela spesso più che valida dato che solo una piccola parte degli aspiranti suicidi reiterano il loro gesto) colpevolizzando ogni diverso comportamento.


Per scovare le aberrazioni del giudizio occorre risalire alle nozioni logiche ed etiche elementari, a quelle nozioni prioritarie su cui è stato costruito l’edificio sociale e politico, a nozioni che possono definirsi universali ed oggettive, che ancora non implichino differenziazioni di natura religiosa o culturale perché preesistenti ad esse.

Il giudizio di un’azione (cosa faccio) nasce dalle sue ragioni (perchè faccio quello che faccio), ma anche dalla quantità di libertà della volontà che la guida, libertà che si esprime nella volontarietà dell’azione (eseguo quello che voglio fare) e nella volontarietà dei suoi risultati (il risultato che ho ottenuto coincide con il mio intento iniziale). Proviamo a guardare dentro questi valori.


Le ragioni dell’azione

L’etica dice: non uccidere.

La legge di natura dice che l’omicidio è un diritto se l’aggressione di un altro, da cui non esiste possibilità di difendersi mediante appello ad una comune autorità riconosciuta, riconduce la mutua relazione allo stato di guerra (Locke).

Il codice umano combina i due principi categorici e dice: “non uccidere, ma se hai l’inevitabile necessità di farlo hai diritto al riconoscimento di attenuanti” con ciò intendendo non che la gravità dell’azione dell’uccidere si riduce ma che è limitata la gravità della responsabilità del soggetto che la compie. In altre parole, la colpa è certa mentre le prove della minore colpevolezza, ovvero le ragioni dell’innocenza, devono essere fornite; cioè va dimostrata ed accertata la necessità inevitabile dell’uccidere rispetto ad una qualsiasi modalità di raggiungere lo scopo – supponendo quest’ultimo inequivocabilmente legittimo.

La situazione canonica rappresentativa della necessità di uccidere, quella per cui la società stessa ammette l’uccidere, è la difesa da un’aggressione che comporti rischio per la propria vita. Vita contro vita: è il riconoscimento della legge di natura per cui ogni essere vivente risponde all’imperativo di sopravvivenza, legge che i regolamenti umani non possono evitare di recepire. Anche la minaccia alla vita in senso lato (il benessere, la sicurezza), anche la reazione ad una violenza intollerabile è universalmente considerata un’attenuante all’atto dell’uccidere.

Ma l’eutanasia non è nulla di tutto questo. Le motivazioni dell’eutanasia escono dai canoni riconducibili al diritto di natura, sono una categoria diversa. Chi pratica l’eutanasia uccide “per togliere la vita”, l’azione è modalità e insieme obiettivo: una fattispecie (orribile a dirsi) del tutto simile a quella di delitti di origine psicopatica; indistinguibile da quelli (orribile a dirsi) talvolta anche nell’”intento buono”.


Ma, parlando di “necessità” dobbiamo chiederci anche se esista un altro metodo per raggiungere lo scopo. Per togliere la sofferenza da una vita esiste solo il dare la morte? Ovvio, no! Ci sono oggi anche le cure antidolore, palliativi medici che tolgono l’effetto più insopportabile della malattia. E’ pur vero che non tutte le sofferenze trovano un loro antidoto chimico, che non tutti possono accedere alle terapie del dolore per problemi economici o per indisponibilità delle tecniche nel paese in cui vivono, restando così discriminati coloro destinati a soffrire da coloro che possono evitarlo, ma queste terapie, con la loro sola esistenza (o possibilità di esistere), bastano tuttavia a smontare la giustificazione più immediata e formalmente valida della necessità dell’uccidere; bastano ad indicare ad una comunità civile l’obiettivo più efficiente verso cui dirigersi che non è quello di togliere legalmente dolore e vita insieme, ma di togliere solo il dolore ovunque occorra.

Dunque nel caso dell’eutanasia, è proprio la necessità che è in discussione, così accade che proprio l’unica vera ragione assolutoria sia troppo difficile da dimostrare.


La libertà della volontà

Restando nell’ipotesi laica che ognuno sia padrone della propria vita, è ancora un indiscutibile principio di natura a dirci che ognuno può decidere su ciò che lo riguarda ed ottenere ciò a cui ha diritto, purchè la decisione sia presa in piena libertà di giudizio, dato che ogni costrizione della volontà invalida la decisione stessa. In termini tecnici occorre sapere se il soggetto è capace, distinguendo con questo il mero stato di coscienza dalla pienezza dell’intendere e del volere.

E allora, dobbiamo chiederci se in colui che chiede la morte esista quella condizione mentale che rende ogni decisione autentica espressione della volontà di chi la esprime, quella condizione necessaria e sufficiente a che una qualsiasi legittima richiesta costituisca obbligazione ad esaudirla. Cioè, esiste quello stato reale di libero arbitrio che unico rende credibilmente valida – quindi obbligante – la richiesta di qualcosa a cui si ha diritto?

La risposta a questa domanda è purtroppo evidente: le condizioni del malato che per eccesso di sofferenza chiede la morte sono quelle che più tipicamente e propriamente rendono non libera la volontà umana. Il malato non vuole positivamente la morte nel senso del restare senza vita, bensì vuole una condizione di assenza di sofferenza. E, dunque, nell’impossibilità d’uso o nell’inefficacia di tecnologie antidolore, la scelta della morte diventa obbligata, senza alternative.

Questa mancanza di alternative è peraltro ciò che caratterizza non solo le situazioni oggettive fisiche del malato incurabile, ma anche le situazioni soggettive di un malato di depressione grave: ma per quanto soggettive e talvolta assurde possano essere le situazioni vissute nella mente di questo tipo di malati, sappiamo che la loro sofferenza è oggettivamente vera e terribile; tanto vera che il suo stesso essere curabile e reversibile nulla rileva agli occhi del malato. Ed è purtroppo provato che il malato oggettivamente incurabile cade anche nella depressione in modo tale che le ragioni complessive di aspirazione alla morte si fondono e confondono tanto da diventare indistinguibili.

Gli studi indicano — che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena" (Documento When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, pubblicato nel 1994 dallo Stato di New York citato nell’articolo di Iasevoli).

Diventerebbe dunque lecito concedere la morte ad ogni aspirante suicida che lo desideri ardentemente o si dovrebbero distinguere e catalogare le sofferenze? In questo desiderio ardente di morte dov’è la libertà di scelta?

Alla luce di queste considerazioni, la capacità di sopportare la sofferenza sembra porsi come una soggettiva condizione mentale, piuttosto che come una catalogabile oggettiva condizione di stato: allora, colui che è soggettivamente più debole – meno saldo e quindi meno libero – ha solo per questo un diverso (maggiore o minore) diritto a morire?

Dunque nel caso dell’eutanasia, proprio in relazione alle circostanze specifiche in cui si colloca la richiesta di morte, questa richiesta non può considerarsi nè pienamente libera, né pienamente obbligata: la sussistenza del libero arbitrio è troppo difficile da dimostrare.

Guardiamo ora colui che esegue l’azione: chi si presta a portare la morte può agire per volontà o sentimento personale, oppure operare “d’ufficio” per motivazioni ideologiche o convinzioni che non implicano processi emotivi. In ogni caso, ancorché questo soggetto accetti di essere solo mano, non può considerarsi un mero strumento altrui, dal momento che nessuna azione umana cosciente deve potersi supporre eseguita senza il coinvolgimento di un libero arbitrio, senza la responsabilità della scelta e dell’azione compiuta.

La logica umana dice che l’uccidere è meno grave se l’attore ha agito per errore (e non è questo il caso), se il risultato di morte ha esorbitato gli intenti della sua volontà (e non è questo il caso), se ha agito per ordine dell’autorità costituita (e non è questo il caso), se è stato obbligato a uccidere, cioè se ha operato senza il deliberato consenso. Su questo punto nascono dei distinguo: la costrizione al deliberato consenso, quale condizione assolutoria, può essere costituita sia da una minaccia estrema (e non è questo il caso) che da un ricatto morale.

E allora, può l’invincibile pulsione dovuta agli affetti, quale quella di cui sono vittime i parenti del malato, essere assunta come menomazione del deliberato consenso alla stregua di un ricatto morale? O non è invece un’attestazione più che mai forte del deliberato consenso all’azione?

E può l’eventuale autorizzazione di legge concessa ai medici a togliere la vita, surrogare la libertà di decisione che deve avere il medico come persona e trasformarsi in assoluzione senza che l’assoluzione stessa debba passare attraverso la mancanza del deliberato consenso? Oppure si può dire che una siffatta legge abbia il potere di togliere il deliberato consenso al medico, solo per il fatto che lo autorizza ad uccidere?

Le domande restano invariate per l’interessato capace ed esplicitamente desideroso di morte qualunque sia la sua speranza di vita in termini di durata. Restano invariate anche se l’azione materiale dell’uccidere è compiuta dall’interessato stesso in forma di suicidio: il suicidio trasferito che si compie usando la mano di un’altra persona ed il suicidio vero e proprio assistito da un’altra persona che ne offre gli strumenti, non modificano in nulla i dilemmi che caricano questo secondo soggetto di responsabilità individuali.

Dunque, anche la mancanza del deliberato consenso e la conseguente mancanza della responsabilità in colui che dà la morte è troppo difficile da interpretare.


La seconda categoria di situazioni: soggetto incosciente

"La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire”. (Giovanni Paolo II, dell’enciclica Evangelium vitae del 25 marzo 1995, citata dall’articolo di Enzo Iasevoli)


I dilemmi che si pongono se l’interessato è coscientemente aspirante alla morte si complicano se l’interessato è incosciente: si complicano anche nel caso “più semplice”, cioè quello in cui il malato vive esclusivamente per mezzo di tecnologie, restando pressoché invariati nel caso dell’eutanasia attiva.

In condizioni di incoscienza dell’interessato, è infatti estremamente difficile distinguere le due fattispecie, dal momento che per entrambe manca il fondamentale requisito dell’attuale ed esplicita espressione della volontà del malato rispetto ad entrambi i “diritti personalissimi” della vita e della salute tutelati con pari livello gerarchico da ogni Costituzione.

Infatti, è sul tema della libertà della volontà del malato che, anche superando per un momento tutti i dubbi espressi nel caso di malato cosciente, occorre comunque affrontare sentieri impervi.

Una dichiarazione resa in tempi non sospetti, il famoso testamento biologico reso in un periodo di serenità e salute con cui l’interessato fornisse le sue esatte direttive circa le modalità di gestione dell’eventuale situazione di malattia, può forse bastare a garantire la permanenza della scelta, quand’anche non solo la malattia ma persino le sue circostanze e modalità vi fossero esattamente configurate? supponendo che l’autentica volontà a morire, sia sufficiente ad assolvere l’iniziativa di altri, come interpretare l’attuale volontà del malato?

E’ esperienza vissuta che l’uomo ha riserve enormi di adattamento, che si aggrappa alla vita nelle condizioni più disperate, anzi – paradossalmente – vi sia aggrappa quanto più sono disperate; nel benessere appare meritevole di non essere vissuta persino una vita in povertà, ma poi all’occorrenza ci si adatta alla miseria più nera; così come ci si adatta alle perdite ed alle menomazioni più terribili.

Nel cervello umano la natura ha posto imperativi formidabili ed inconsci verso la vita in quanto tale, verso anche la sola semplice e pura sopravvivenza: è anche sperimentato che spesso i malati a cui si offra del veleno per un facile suicidio, rinuncino a compiere il gesto che pure hanno implorato altri di fare. E’ noto che è impossibile strangolarsi con le proprie mani perché le ultime risorse fisiche, quelle che residuano quando il cervello è ormai incosciente, sono dedicate a salvarsi.

E ancora: in una mente salda ci sono risorse inimmaginabili come dimostrano innumerevoli portatori di handicapp gravi che hanno comunque successo nei più vari campi della vita.

Alla luce di questi fatti, non è forse logico avere dubbi sulla validità dell’espressione preventiva di una volontà?

Alla luce di questi fatti, non dovrebbe avere dubbi anche qualsiasi tutore eventualmente nominato per legge a fare gli interessi del tutelato interdetto? Dubbio mio personale, che si pone di fronte alla sentenza della Cassazione Italiana (V.appendice) sul punto in cui afferma che : ”il tutore.. che ha la cura della persona ai sensi dell’art 357 c.c. è investito del legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell’incapace…potendosi avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del soggetto con quella della volontà della persona nominata tutore……il consenso informato del legale deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”.

Quando questo tutore, “tenuto conto del carattere personalissimo del diritto alla salute” viene investito del “potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale permanente incoscienza” avendo come solo vincolo il “ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente …inferendo quella volontà alla sua personalità.. ai suoi valori..alle sue convinzioni etiche, religiose e filosofiche”, cioè “prendere per quanto possibile la decisione che il paziente incapace avrebbe preso se capace” deve decidere, come può intimamente essere sicuro che la sua scelta sarebbe la stessa che prenderebbe il paziente? Come può la legge, che deve essere positiva, generale e certa, assicurare l’esistenza di questa intima comunanza di idee tra due persone, di cui il decisore è stato nominato tale non dall’interessato ma da un'altra legge? Come si può delegare la irrevocabile decisione della vita a terzi usando termini come “per quanto possibile” e “presunta volontà” e farlo nella pretesa di positività, generalità e certezza?

Più che mai, il libero arbitrio è troppo difficile da accertare.


Parimenti, se le ragioni dell’azione e la sua necessità, pongono dilemmi difficilissimi nel praticare l’eutanasia al soggetto cosciente, nel oggetto incosciente la questione appare insolubile.

Superando per un momento tutti i dubbi espressi nel caso precedente e supponendo che la sofferenza sia una ragione per dare la morte, come conciliare questo con il fatto che il malato incosciente, in realtà non prova sofferenza fisica? E supponendo che la mancanza di dignità della condizione di vita sia una ragione per dare la morte come può il malato soffrire nella propria psiche dal momento che non ha coscienza di essa? Come può avvertire l’assenza di dignità, se non ha neppure la coscienza dell’esistere?

In realtà, quasi in una parafrasi dei I Sepolcri di Foscolo, in questo caso la morte non serve al malato ma all’amore dei congiunti.

E’ umanamente normale e logico che i congiunti soffrano dell’evocazione di incubi di indegnità di vita che sono suscitate dalla visione del malato, che riflettano le proprie paure su ciò che hanno davanti, che avvertano in sé, nel proprio intimo cosciente ciò che tuttavia l’intimo incosciente del malato non può avvertire e che vogliano sbarazzarsi della propria sofferenza e dell’insostenibile minaccia di indegnità di vita che produce la gestione di un amato incosciente ed incurabile.

E’ umano, accadrebbe a tutti: ma basare una legislazione assolutoria su queste ragioni, equivale ad accettare – con tutto il peso della positività, certezza e generalità che ciò comporta – che qualcuno sia autorizzato a decidere sul tuo senso di dignità, sulla tua capacità di soffrire, sulla tua inconscia volontà di vivere; che qualcuno possa adottare la misura fornita dalla sua propria sensibilità a valore limite di queste grandezze per una decisione irreversibile che interessi direttamente te: ritorna la tematica del Tutore con tutti i dubbi che genera.


E poi, quale è la differenza – in termini logici – tra la situazione canonica in esame (rappresentata dal malato incosciente perché in coma irreversibile) e quella di un qualsiasi soggetto che sia definitivamente e totalmente incapace di intendere e di volere e che conduca un’esistenza definibile “priva di dignità”? Occorre qui specificare che in questa categoria ricade un “qualsiasi” malato di mente incurabile ed un qualsiasi drogato all’ultimo stadio? Che questa identificazione esista (ancorchè aberrante nelle sue implicazioni se venissero così recepite) lo dice anche la già citata sentenza della Cassazione Italiana, nel punto in cui appoggia il parere sulla Convenzione del Consiglio di Europa ”Allorquando, secondo la legge un maggiorenne non ha, per un handicapp mentale, per una malattia o per un motivo similare la capacità di acconsentire ad un intervento, quello stesso non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante designato…” per assimilazione del caso in esame (malato inconscio) al “motivo similare”.

E non basta: se fosse legittimato il decidere della morte sulla base di un ragionamento di dignità, cosa potrebbe impedire che un domani, con il progredire della sensibilità generale qualcuno non sposti il limite di tale dignità a valori più bassi? Quanto è grande il passo – e quanto tempo occorrerà a compierlo – da una linea di confine “estrema = irreversibile stato di sofferenza insostenibile” ad una linea “quotidiana= malattia corrente o vecchiaia o handicapp” ?

E infine, quanto è lungo il passo che porta dall’accettare queste considerazione ancora così profondamente umane e sentimentali ad altre, pur sempre ”” nei loro fini ultimi quali: “non è meglio spendere risorse per curare i bambini, piuttosto che mantenere in vita un incurabile o un anziano?” e poi : “non è meglio dare una vera opportunità di vita facendo studiare bambini sani piuttosto che curare bambini malati?”.


Anche il semplice adottare il parametro “dignità della vita” in certe decisioni, porta in modo quasi impercettibile ma inevitabile alla logica di pesare una vita e di confrontarne il valore rispetto ad altre. Ma questo è un concetto troppo pericoloso perché si possa anche solo pensare di intraprenderne la via.

La condizione per ammettere la liceità e la legalità dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, e a chiederne la soppressione, una volta che questa sia "senza valore". Ma una volta affermato che la vita "senza valore" può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero "beneficiare" del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?” (Enzo Iasevoli- Internet)

Ogni individuo ha diritto alla vita“ dichiara l’art. 1 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Ogni vita è una vita“: già nel 1222 la Carta Manden del sovrano del Mali, Sundjata Keïta, pur ai primordi della consapevolezza nell’uomo del possesso del diritto alla vita, già afferma che ciò prescinde da qualsiasi qualifica della vita stessa.


Il paradosso dell’eutanasia

Riassumendo il mio pensiero, nella crescita della “domanda di eutanasia” si configura un primo paradosso della questione: la domanda di eutanasia è inscindibile dalla domanda di vita.

Per accrescere la sua possibilità di vita, l’uomo dapprima si è reso capace di soffrire di più, poi si è reso capace difendersi istituzionalmente di più, poi si è reso capace di curarsi di più. Questo percorso parla sempre di vita biologica perché i passaggio sono mirati a prolungare questo tipo di vita; solo recentemente (un niente nella scala dei tempi dell’umanità) alla vita biologica vengono associati i concetti di qualità, di dignità, di assenza di sofferenza. E vi vengono associati con una forza che diviene addirittura predominanza quando in nome di essi si chiede l’eliminazione della vita.

E ciò accade sebbene nello stato di natura la sofferenza sia data come parte integrante della vita, mentre gli altri attributi che l’uomo moderno le dà sono optional a cui non ha diritto: non sono nel contratto originario del nascere, non sono dovuti. Come si può considerare prioritariamente necessaria l’eliminazione di qualche cosa che è intrinseca alla condizione di essere vivente?

A questo paradosso storico, si aggiunge un paradosso per così dire geografico. Noi, uomini dell’occidente, che sottolineiamo questa necessità quando inerente un singolo componente di questa nostra società, non ci sogneremmo mai di porre in termini di eutanasia la questione dei milioni di esseri del mondo che vivono in una perpetua incurabile sofferenza, in una disperata privazione dignità e in un presumibile desiderio di “farla finita”: pensiamo bensì ad uno sforzo collettivo della solidarietà e della scienza, confidando nel frattempo che la loro resistenza alla vita ci salvi dal rimorso di una morte collettiva per miseria. Potrebbe, questo, essere il pensiero guida anche nel nostro porci verso i singoli individui della nostra società per i quali invochiamo il diritto l’eutanasia?


Ed ecco l’ultimo paradosso:


Se in tutti i casi dell’eutanasia le ragioni dell’azione pongono dilemmi pesantissimi, se la libertà dell’azione si presta ad interpretazioni ambigue, se la responsabilità dell’azione non trova attenuanti limpide il tema dell’eutanasia si presenta insolubile anche in senso esclusivamente laico e su un piano strettamente razionale: l’atto dell’uccidere si presenta comunque in tutta la sua gravità. Tutto dice che ogni tentativo di regolamentare con legge l’eutanasia costituisce contraddizione e rottura apportate alle fondazione del nostro sistema di diritto e che apre brecce nella logica di tutte le prescrizioni che regolamentano le questioni di diritto che su quelle fondazioni poggiano. La regolamentazione dell’eutanasia non può essere avulsa dal resto del sistema giuridico, così da aprire varchi all’omicidio senza causa di necessità, all’assoluzione di delitti compiuti in piena libertà di scelta, alla validazione di decisioni prese in assenza di piena libertà di scelta, all’assegnazione di responsabilità penale diverse da quella individuale.

Il giudizio legale che deve poggiare su certezze e misurabilità, non può confrontarsi con la discriminazione tra vita sana e vita malata, con l’inesistente distinguo tra intollerabile sofferenza fisica rispetto ad intollerabile sofferenza psichica, con l’incerto cavillo della sofferenza percepita in piena coscienza e sofferenza intrinseca in uno stato ancorchè non percepita, con l’ambiguo limite tra suicidio fatto da sé a suicidio fatto tramite altri, con la non misurabile misura della dignità umana percepita o goduta, con il non identificabile confine tra sofferenza sopportata o sopportabile, con la scivolosa assimilazione dell’attuale al presunto.

Per queste ragioni la regolamentazione dell’eutanasia non potrebbe mai dover essere universale o generale, cioè tale da fornire elementi positivi al conseguimento dell’assoluzione o all’attribuzione della colpa.


Ma giunti a queste conclusioni che porterebbero a negare all’eutanasia qualsiasi spazio canonico negli strumenti del giudizio umano, ecco che la mente si blocca indecisa su un’altra considerazione che nella sua semplicità è ineludibile altrettanto quanto il punto di arrivo di tanti ragionamenti: nulla come la sofferenza (fisica o psichica che sia) conduce l’essere umano all’annichilimento di ogni rispetto di sè, all’oblio di ogni dignità e di ogni coscienza, di ogni traguardo raggiunto e di ogni sogno. Nulla come la sofferenza distrugge la persona umana nel suo essere e nel suo voler essere perché l’attimo e la durata, il futuro ed il passato si trasformano in una informe macchia nera che riempie il cervello scacciandone ogni altra visione, annullando l’essenza stessa dell’esistenza, il cogito ergo sum, trasformandolo nel suo opposto non penso quindi non esisto, sono già morto.

E ancora, dobbiamo riconoscere che la risposta della medicina in termini di terapia antidolore non può evidentemente soddisfare la sensibilità moderna del significato di vita che è anche azione, pensiero, sensazione e – perché no – piacere. L’assenza della sofferenza che si trasforma, proprio per effetto delle medicine anche in assenza di tutti gli altri attributi può essere una risposta che accontenta?

E ancora: il respiro senza il pensiero, il pensiero senza il movimento, la volontà senza la capacità non produce uno stato che può essere realmente intollerabile e in qualche modo incompatibile con quello che oggi – non da sempre ma oggi – è il livello a cui il nascere sarebbe contrattato, se fosse possibile farlo?

E ancora: nessuna tortura fa soffrire quanto quella che si vede inflitta a chi si ama; e chi ama veramente non può resistere alla disperata domanda di aiuto, anzi, nel metro corrente, guai se vi resistesse.

Nessun giudizio umano si può esentare dal tener conto di queste realtà che sono pure umane, pur nella loro relatività poiché trattano dell’umanità di oggi e dell’umanità della nostra porzione di mondo.


Ecco dunque che sul tema dell’eutanasia si scontrano frontalmente principi cardine dello stato di natura (le ragioni dell’uccidere), della nostra civiltà (libertà della volontà e responsabilità individuale), della nostra etica (uso della vita) e della nostra essenza di vita (cogito ergo sum). La nostra società evoluta e civile non può sottrarsi dal prendere atto di questo scontro e non può negare il fatto che non esiste una soluzione che possa soddisfare contemporaneamente i quattro livelli di giudizio, conservando autorevolezza sia in ambiente religioso che laico.


La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (ONU 1948) colloca nell’articolo 1 il riconoscimento che: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, indicando così un diritto/dovere naturale e quindi cogente, che deve guidare le azioni umane in assenza di logiche più dirette e più semplici.

Come pochi altri grandi enigmi della condizione umana, la questione dell’eutanasia può analizzarsi solo sul livello di ragione e coscienza, cioè su un livello di transazione ovvero di umile, cauto e rispettoso compromesso tra cardini di pari dignità tutti parimenti non discutibili e non modificabili, un compromesso da ritagliarsi su ogni caso come è giusto fare su un unicum eccezionale.

Per un gesto che veramente scambi “vita per vita” – fatto che solo giustifica l’assoluzione sociale senza intaccare nessun altro principio morale – per un gesto che si può assolvere solo in quanto atto d’amore i parametri di valutazione potranno solo essere rintracciati nella quantità di amore, nella ineludibilità di questo amore, nella forza di coercizione che esso esercita. Coercizione che non aggira né elimina la responsabilità individuale, ma la rafforza e la potenzia al punto da farle superare consapevolmente e volontariamente l’altrimenti invalicabile limite dell’uccidere, il comunque inevitabile giudizio umano. Che renda, per chi è credente, tanto puro da affrontare anche il giudizio divino in un confidente omnia munda mundis capace di conquistare la remissione anche del delitto.

Solo entrando in questo processo con spirito di fratellanza, caso per caso, mediante la rispettosa analisi delle motivazioni, delle personalità in gioco, della loro forza e debolezza, delle situazioni psicologiche e delle convinzioni intime sulla vita può trovarsi il verdetto di assoluzione o colpevolezza sociale dei vari ruoli; verdetto solo sociale perché quello morale o umano è altra cosa e non è comunque – in questa materia – raggiungibile su questa Terra.


Note: ho tratto alcune informazioni dal sito http://it.wikipedia.org/wiki/Diritti_Umani,

ho inoltre utilizzato il bell’articolo del dott Enzo Iasavoli sul sito http://www.lions-pomigliano.it/Bioetica/Eutanasia.htm


APPENDICE

Per completezza di informazione, riferisco lo stato della normativa italiana (fonte articolo Avv. Maria Carolina Farina).

Nel nostro Paese non esiste una normativa dedicata al tema, ma i singoli casi vengono affrontati tramite l’ordinamento corrente: il suicidio non è punito, l’eutanasia attiva è assimilata a omicidio di consenziente e punito con riferimento all’art. 576 del codice penale (meno grave dell’omicidio doloso), all’eutanasia attiva su soggetto inconscio viene imputato il reato di omicidio doloso salvo applicazione della fattispecie precedente laddove esistano elementi per ritenere che il paziente avrebbe acconsentito. Viene applicata in ogni caso l’attenuante prevista nell’articolo 62 del codice penale in quanto l’azione viene imputata a ragioni di particolare valore morale, compensata in ogni caso dall’aggravante della premeditazione.

L’eutanasia passiva è omicidio, ex art. 40 del codice penale, solo se messa in atto da chi ha un esplicito dovere a salvare la vita. L’eutanasia passiva non consensuale è punita, l’eutanasia passiva consensuale è ammessa in virtù del riconoscimento del diritto di autodeterminazione del malato circa le cure cui sia sottoposto (Costituzione artt. 13 e 32).

In caso di accanimento terapeutico su un soggetto cosciente, questi articoli costituzionali autorizzano un giudice – se interpellato – ad ordinare la cessazione delle cure. Tuttavia è considerato accanimento solo la cura ad esito positivo impossibile riferita specificatamente alla malattia: non rientra quindi in questa categoria l’alimentazione forzata, il cui distacco pertanto ricade nell’art. 40 già citato. Nel caso in cui il malato sia in stato di incoscienza, il dibattito è alquanto vivace per quanto attiene la figura del tutore.


Riporto una vicenda recente, in cui il tutore ha chiesto al giudice l’interruzione “d’ufficio” dell’alimentazione artificiale applicata alla sua congiunta, in stato di coma da molti anni. Sulla questione, il tribunale di Lecco nel febbraio 2006 ha decretato che: “ Né il tutore né il curatore speciale hanno la rappresentanza sostanziale, e quindi processuale, dell'interdetta con riferimento alla domanda dedotta in giudizio (l’interruzione delle cure), involgendo essa la sfera dei diritti personalissimi, per i quali il nostro ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza, se non in ipotesi tassative previste dalla legge, nella specie non ricorrenti.

…… Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. In base agli artt. 13 e 32 Cost. ogni persona, se pienamente capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza, laddove se la persona non è capace di intendere e di volere il conflitto tra il diritto di libertà e di autodeterminazione e il diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest'ultimo, in quanto, non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun profilo di autodeterminazione o di libertà da tutelare. L'art. 32 Cost. porta ed escludere che si possa operare una distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute.”

Il tribunale d’appello di Milano, interpellato avverso la sentenza di Lecco ha dichiarato che: “… ai sensi del combinato disposto degli artt. 357 e 424 cod. civ., nel potere di cura della persona, conferito al rappresentante legale dell'incapace, non può non ritenersi compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alle terapie mediche. La “cura della persona” implica non solo la cura degli interessi patrimoniali, quanto - principalmente - di quelli di natura esistenziale, tra i quali vi è indubbiamente la salute intesa non solo come integrità psicofisica, ma anche come diritto di farsi curare o di rifiutare la cura: tale diritto non può trovare limitazione alcuna quando la persona interessata non è in grado di determinarsi. ….

Peraltro, nel sottolineare che la nutrizione non è accanimento terapeutico ha affermato che: “ il giudice - chiamato a decidere se sospendere o meno detto trattamento - non può non tenere in considerazione le irreversibili conseguenze cui porterebbe la chiesta sospensione (morte del soggetto incapace), dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e dignità della persona e quello alla vita”. Detto bilanciamento - a giudizio della Corte d'appello - “non può che risolversi a favore del diritto alla vita, ove si osservi la collocazione sistematica (art. 2 Cost.) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32 Cost.), all'interno della Carta costituzionale”; tanto più che, alla luce di disposizioni normative interne e convenzionali, la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l'esistenza di un “diritto a morire” (come ha riconosciuto la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito)”.

La Corte di Cassazione, interpellata dal tutore contro tali sentenze, nel dicembre 2006 ha cassato la predetta sentenza d’appello, chiedendo al tribunale di riconsiderare il caso alla luce dei “principi di diritto” che qui riporto estesamente. Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione n. 21748/2007, che viene citata anche nel mio testo:

«Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa».

La lunga ed articolata motivazione, discute con particolare dettaglio il ruolo del tutore:

7.2 “………Centrale, in questa direzione, è la disposizione dell'art. 357 cod. civ., la quale - letta in connessione con l'art. 424 cod. civ. -, prevede che "II tutore ha la cura della persona" dell'interdetto, cosi investendo il tutore della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell'incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 e ss. cod. civ., introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l'indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405, quarto comma, cod. civ.).

A conferma di tale lettura delle norme del codice può richiamarsi la sentenza 18 dicembre 1989, n. 5652, di questa Sezione, con la quale si è statuito che, in tema di interdizione, l'incapacità di provvedere ai propri interessi, di cui all'art. 414 cod. civ., va riguardata anche sotto il profilo della protezione degli interessi non patrimoniali, potendosi avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del soggetto con quella della persona nominata tutore pure in assenza di patrimoni da proteggere. Ciò avviene - è la stessa sentenza a precisarlo - nel caso del soggetto "la cui sopravvivenza è messa in pericolo da un suo rifiuto (determinato da infermità psichica) ad interventi esterni di assistenza quali il ricovero in luogo sicuro e salubre od anche il ricovero in ospedale" per trattamenti sanitari: qui il ricorso all'(allora unico istituto dell')interdizione è giustificato in vista dell'esigenza di sostituire il soggetto deputato a esprimere la volontà in ordine al trattamento proposto..

……..

E' soprattutto il tessuto normativo a recare significative disposizioni sulla rappresentanza legale in ordine alle cure e ai trattamenti sanitari.

Secondo l'art. 4 del d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione della buona pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico), la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima che insorgesse l'incapacità, è possibile a condizione, tra l'altro, che "sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante": un consenso - prosegue la norma - che "deve rappresentare la presunta volontà del soggetto".

…………..

Più direttamente - e con una norma che, essendo relativa a tutti i trattamenti sanitari, esibisce il carattere della regola generale - l'art. 6 della citata Convenzione di Oviedo - rubricato Protection des person-nes n'ayant la capacitè de consentir - prevede che "Lorsque, selon la loi, un majeur n'a pas, en raison d'un handicap mental, d'une maladie ou pour un motif similaire, la capacitè de consentir à une intervention, celle-ci ne peut ètre effectuée sans 1'autorisation de son représentant, d'une autorité ou d'une personne ou instance désignée par la loi", precisando che "une intervention ne peut étre effectuée sur une personne n'ayant pas la capacité de consentir, que pour son benèfice direct". E - come esplicita il rapporto esplicativo alla Convenzione - quando utilizza l'espressione "pour un motif similare", il citato art. 6 si riferisce alle situazioni, quali, ad esempio, gli stati comatosi, in cui il paziente è incapace di formulare i suoi desideri o di comunicarli.

7.3 - “Assodato che i doveri di cura della persona in capo al tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità, si tratta di stabilire i limiti dell'intervento del rappresentante legale. Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che - come questa Corte ha precisato nell'ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 - la libertà di rifiutare le cure “presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive”. Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell'incapace né “per” l'incapace, ma “con” l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.

L'uno e l'altro vincolo al potere rappresentativo del tutore hanno, come si è visto, un preciso referente normativo: il primo nell'art. 6 della Convenzione di Oviedo, che impone di correlare al «bénéfice direct» dell'interessato la scelta terapeutica effettuata dal rappresentante; l'altro nell'art. 5 del d.lgs. n. 211 del 2003, ai cui sensi il consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve corrispondere alla presunta volontà dell'adulto incapace. Non v'è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita. Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l'idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte. “

7.4- ” Questa attenzione alle peculiari circostanze del caso concreto e, soprattutto, ai convincimenti espressi dal diretto interessato quando era in condizioni di capacità, è costante, sia pure nella diversità dei percorsi argomentativi seguiti, nelle decisioni adottate in altri ordinamenti dalle Corti nelle controversie in ordine alla sospensione delle cure (ed anche dell'alimentazione e idratazione artificiali) per malati in stato vegetativo permanente, in situazioni di mancanza di testamenti di vita.

Nel leading case in re Quinlan, la Corte Suprema del New Jersey, nella sentenza 31 marzo 1976, adotta la dottrina - seguita dalla stessa Corte nella sentenza 24 giugno 1987, in re Nancy Ellen Jobes - del substituted judgement test, sul rilievo che questo approccio è inteso ad assicurare che chi decide in luogo dell'interessato prenda, per quanto possibile, la decisione che il paziente incapace avrebbe preso se capace. Allorché i desideri di un capace non siano chiaramente espressi, colui che decide in sua vece deve adottare come linea di orientamento il personale sistema di vita del paziente: il sostituto deve considerare le dichiarazioni precedenti del paziente in merito e le sue reazioni dinanzi ai problemi medici, ed ancora tutti gli aspetti della personalità del paziente familiari al sostituto, ovviamente con riguardo, in particolare, ai suoi valori di ordine filosofico, teologico ed etico, tutto ciò al fine di individuare il tipo di trattamento medico che il paziente prediligerebbe.

Nella sentenza 25 giugno 1990 nel caso Cruzan, la Corte Suprema degli Stati Uniti statuisce che la Costituzione degli USA ………..allorché non è possibile accertare tale chiara volontà del paziente, si può valutare l'ammissibilità di tali misure secondo la presunta volontà del paziente, la quale deve, quindi, essere identificata, di volta in volta, anche sulla base delle decisioni del paziente stesso in merito alla sua vita, ai suoi valori e alle sue convinzioni. ……

7.5- Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. La tragicità estrema di tale stato patologico - che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano - non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto l'idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l'altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili.

Ma - accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest'ultima scelta. All'individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l'inaccettabilità per sé dell'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l'ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale. Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione - tenendo conto della volontà espressa dall'interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso - sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona. Per altro verso, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza - ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell'integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza - assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all'identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce. Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell'autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza - proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità - si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.”…

Nel segnalare solo marginalmente, come nel principio enunciato dalla Corte non appare chiaro il valore nel giudizio della durata del coma né la specificazione dello strumento di alimentazione (sondino gastrico), è evidente che l’approccio italiano pur non essendo caratterizzato da legislazione specifica, adotta un’analisi solo apparentemente sviluppata ad hoc per il caso umano in esame ma in realtà allacciata a norme o sentenze preesistenti in modo tale da formulare un giudizio che ha comunque un presunto carattere generale, certo e positivo. La somma delle sentenze di questo tipo porteranno comunque per via non di legiferazione ma di giurisprudenza a fornire ai decisori (giudici, medici o parenti che siano) indirizzi comportamentali in grado di garantire una assoluzione o una responsabilità.

E’ proprio questo concetto, insieme alle frasi che ho sottolineato, che a mio avviso solleva i più dolorosi dubbi che ho espresso nel mio testo.

1 Dirigente della TAV

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